
Mai unanime, mai perfettamente a tempo. Ci infastidisce, ci fa sorridere e ci contagia. Ma mai, davvero, ci lascia indifferenti.
L’applauso all’atterraggio: analisi di una passeggera misantropa con bagaglio a mano e sarcasmo da stiva.
Succede spesso. L’aereo tocca terra, il carrello sfrega l’asfalto con quel gemito da film di fantascienza anni ’80, il pilota frena con la grazia di un elefante, e poi scatta il fenomeno: un battimani sparso, sincopato, disorientato e vagamente disperato. Qualcuno inizia, gli altri si guardano, esitano, ma alla fine partecipano e l’applauso all’atterraggio prende il volo.
E poi atterra anche lui.
Ora, intendiamoci, io non ce l’ho con chi batte le mani. Anche perché spesso è lo stesso che durante il volo ha pregato tutti i santi della Cappadocia e ha stritolato la mano del partner con la forza di una pressa industriale. Ma ciò non toglie che questo piccolo rito contemporaneo meriti almeno un’indagine semiseria.
Una sorta di antropologia del passeggero emotivo.
Le origini del battimani volante
Difficile dire quando sia iniziato tutto. Forse con i primi voli charter per Ibiza nei tardi anni ’80, quando la democratizzazione del cielo ha coinciso con la scoperta che si può morire anche in costume da bagno.
O magari ancora prima, nei voli di linea sovietici, dove atterrare era una scommessa più che un’abitudine.
Quel che è certo è che l’applauso in aereo non è universale, ma ha una geografia piuttosto precisa.
Nei voli dell’Europa del Sud, ad esempio, è un rituale ancora vivo e molto praticato. Italiani, spagnoli, greci: popoli dal cuore caldo e dal palmo reattivo.
Gli scandinavi, al contrario, ti guardano come se avessi appena applaudito a un funerale.
I tipi da applauso
Osservando con attenzione si possono identificare alcune categorie di applauditori seriali all’atterraggio:
- Il capobranco: parte per primo, mani alte e convinte e via all’applauso compatto, ritmato, militare. Non guarda nessuno, lui guida.
- Il dramma: per tutto il viaggio ha recitato mentalmente un monologo di addio alla vita, con tanto di sottofondo di Ludovico Einaudi e sguardo fisso fuori dall’oblò. Poi, all’atterraggio, gli parte un applauso a metà tra il liberatorio e il “mai più”. Sta già pensando a come raccontarlo nei reel su Instagram: “Quel momento in cui ho sconfitto la mia paura…”
- Il tifoso in trasferta: lui è quello che al gate esibisce i biglietti per Manchester City insieme alla carta d’imbarco. Non vede l’ora di atterrare per applaudire con lo stesso sentimento con cui canta in curva. Per lui, l’atterraggio è solo il primo goal della trasferta.
- Il gruppo INPS: si riconoscono dai cappellini coordinati del tour operator, loro sono lo schiamazzo dal decollo all’atterraggio, una piccola orchestra che non ha bisogno di partiture, solo di un comandante e di un Boeing. Pensionati, sì, ma con l’entusiasmo di chi sta andando a scoprire il Nuovo Mondo. Mentre applaudono si chiamano l’un l’altro per nome, commentando l’atterraggio con frasi come “Bravi questi ragazzi eh, ci sanno fare”, oppure “Noi abbiamo visto la guerra, le lire, e i telefoni con la rotella. Un atterraggio merita sempre rispetto”.
- Il turista premium: cappellino con scritta della città di destinazione e guida turistica già aperta a pagina 2. Lui applaude sempre, crede di onorare la cultura locale così. Lo si riconosce perché ha le mani pronte a mezz’aria già durante la discesa e applaude anche se l’atterraggio è stato un disastro.
- la zia da crociera: capelli biondi cotonati, completo blu elettrico, un brillocco per ogni dito. Ha fatto l’applauso anche al bus navetta e non vede l’ora di dire a tutti che “il comandante era bravissimo”. Per tutto il volo infatti ha guardato costantemente verso la cabina di pilotaggio come se il comandante potesse sentirla direttamente nel cuore.
- Il cinico: batte le mani lentamente con un sorrisetto a denti stretti, ma in realtà sta pensando: “Ecco, di nuovo questi selvaggi provinciali”.
Spoiler: molto spesso mi è capitato di essere l’ultima tipologia.
Ma a chi, esattamente, è rivolto l’applauso all’atterraggio?
Perché non si applaude in treno quando si arriva a Milano Centrale, anche se dati i ritardi e i disservizi, forse si dovrebbe?
Non si applaude neppure all’autista dell’autobus, che compie l’impresa quotidiana di frenare dolcemente a ogni fermata senza che nessuno finisca nel parabrezza.
E allora? È per il pilota? Per la compagnia? Per il destino benigno?
Probabilmente l’applauso va al concetto stesso di sopravvivenza. È un applauso esistenziale, uno scampato pericolo sublimato in battimani.
Il passeggero, appena tornato con i piedi a terra, sente il bisogno fisico di ringraziare qualcuno — chiunque — per non essere diventato una notizia al telegiornale.
Proprio per questo penso che l’applauso abbia una sua funzione tribale.
L’applauso come rito collettivo
È l’unico momento in cui i passeggeri, fino a un secondo prima sconosciuti e fastidiosamente vicini, diventano una comunità.
Una fragile, rumorosa, irripetibile comunità che applaude compatta il fatto di essere ancora intera.
Come se ogni viaggio fosse un’Odissea compressa e ogni pista d’atterraggio, una personale Itaca.
Riflettiamoci, non abbiamo scelto né comandante, né cabin crew, né il bimbo che ha frignato tre ore. Ma abbiamo condiviso qualcosa.
E ora lo celebriamo. Come un battesimo, o una liberazione. È un gesto quasi rituale, rivelatore: si battono le mani per esorcizzare il rischio, per ringraziare a’ Maronna, San Gennaro e chiunque ci abbia condotto attraverso i flutti d’aria.
E soprattutto, dice molto su chi siamo quando nessuno ci guarda davvero, chi siamo quando diventiamo passeggeri di un aereo, cioè fragili, perché sancisce esattamente l’attimo in cui in cui l’umanità sospesa ritorna terrestre.
E quindi? Applaudire all’atterraggio sì o no?
Domanda da un milione di miglia aeree.
La risposta è: fate come volete. Applaudite se vi sentite grati, alleggeriti, vivi.
Non applaudite se vi sentite europei del Nord, o semplicemente se siete già proiettati verso il nastro bagagli e la corsa al taxi. Nessuno vi giudicherà (a parte forse il cinico di cui sopra, ma lui giudica anche il modo in cui state in coda al gate).
Per quanto mi riguarda, l’applauso all’atterraggio è un piccolo gesto umano, goffo e inutile, quindi assolutamente perfetto.
È una manifestazione collettiva d’istinto, un modo per dire che siamo ancora qui… anche stavolta non siamo precipitati.
E poi, diciamolo, applaudire in cabina non è vietato come l’uso del cellulare. E non è poco: in un tempo in cui tutto è misurato, automatizzato e previsto, l’applauso è la rivincita dell’imprevedibile. Perché non ha script, non obbedisce ad algoritmi, non è gestito da bot o da AI, ma è un sussulto umano che sfugge al controllo, una piccola ribellione di carne e mani.
L’applauso all’atterraggio è puro baccano, eppure è la più silenziosa delle rivoluzioni emotive. Ci ricorda che volare non è mai solo spostarsi, così come atterrare non è mai solo finire un viaggio.
È un ritorno.
E forse, ogni tanto, tornare merita davvero un applauso.
Quanti di voi possono affermare di non aver mai applaudito all’atterraggio?
Sicuri? Nemmeno una volta?
Era un po’ che non assistevo ad un battimano dal vivo. L’ultimo qualche mese fa all’atterraggio in Marocco. Devo dire che ci stava tutto considerato l’atterraggio affatto morbido del veivolo. In molti avranno tirato un sospiro di sollievo al finire dello sballottamento. Io sono tra quelli che non si spellano le mani. A pensare a certi voli che ho fatto sarebbe stato normale lasciarsi andare al gesto scaramantico, ma non cedo
Devo ammetterlo: ci sono state volte in cui ho davvero provato imbarazzo, soprattutto quando ad applaudire in modo sguaiato erano nostri compatrioti. Una decina di anni fa circolò una notizia che poi si è rivelata uno scherzo: l’UE vietava l’applauso in cabina con tanto di multone da 500 Euro. Ricordo che rimasi malissimo quando scoprii che era una fake news 😛 Penso che ci siano modi e modi per essere entusiasti, anche solo dire “grazie e arrivederci” prima di scendere dalla scaletta dell’aeromobile. Lo dico con cognizione, perché vedo puntualmente molti passeggeri passare letteralmente a dieci centimetri da hostess e steward senza neanche salutare! Sono gli stessi che pochi minuti prima hanno applaudito sguaiati, che educati, che carini…
Grazie ancora, Fausto!
Ciao Dani! Che ricordi… Lo facevo anch’io le prime volte prima di capire che l’aereo non è un teatro
Cristina che bella sorpresa ritrovarti! Che ricordi l’applauso e che ricordi anche la comunella che facevamo anni fa: sono stati gli anni di blogging più belli 🙂
Sono scoppiata a ridere su “l’aereo non è un teatro”, eppure qualcuno oggi lo confonde davvero con i palchi scaligeri… considerando come si ingioiellano certe anche sulle low cost 😛 Grazie, mi ha fatto piacere risentirti :*
Sono tra quelli che la ritengono una cafonata e in ogni caso un gesto privo di senso, evidentemente europeo del nord.
ahhahaahh “Europeo del nord” presente! Ti dirò, sarà l’età non lo so, ma ora mi fanno tenerezza. In passato invece avrei tagliato le mani a tutti… come un boia dei cieli 😛
Grazie per la lettura! 🙂
Credo che mi sia capitato di assistere a un applauso collettivo l’ultima volta all’atterraggio a Barcellona: perfettamente in linea con la tua analisi geografica! Poi le stesse persone che si consumano i palmi ad applaudire magari sono le stesse che, come dici tu, passano accanto al personale di bordo senza né salutare né ringraziare.
Per quanto riguarda le categorie, mi sa che prima o poi ci capiterà di incontrarle tutte: il tifoso da stadio e la zia da crociera mi hanno fatto ridere con le lacrime agli occhi.
Sugli scandinavi che ti guardano come se avessi appena applaudito a un funerale sono morta, per restare in tema!
A me capito’ anni fa in un volo qdo il pilota aveva fatto una sorta di scorciatoiae arrivammo in orario nonostante partiti in ritardo!
Mai sopportato. Ho visto farlo soltanto su Ryanair, mai in altre compagnie e neanche sempre, a dire il vero.