Il calice d’Italia e il fiasco dell’UE. Esplorando un antico palmento abbandonato

Palmento abbandonato

È l’aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende.

Negli anni in cui la retorica della guerra si sposava a quella del lavoro agricolo, anche la pigiatura dell’uva rammentava una marcia energica dal ritmo militare. Era un’andatura marziale, che non riconosceva minoranze né badava all’inclusione: bianca, rossa o rosé che fosse, la pigna veniva presa a pedate e brutalmente schiacciata.
Carriera curiosa quella del vino, vero? Da prodotto calpestato a indiscusso re della tavola.

Non mi ritengo una persona amante della bevanda sacra alla convivialità. In tutta sincerità non ci ho mai capito nulla, anzi, con buona pace dei suoi estimatori, per me il vino ha sempre avuto il sapore dell’inchiostro.
Non sono solita vagare per le vigne, non faccio degustazioni in cantine rinomate, e a tavola concedo asilo politico solo all’acqua e alla birra scura.

Ma non potevo non visitare un tempio – anche se diruto – al dio Bacco. Non potevo non ubriacare il mio smartphone di foto, e non potevo non intrufolandomi in un antico palmento abbandonato.

antico palmento abbandonato

Ai tempi della Riforma Fondiaria era in luoghi come questo che avveniva la pigiatura dell’uva. I palmenti, con annessi enopoli, erano il core business di grossi latifondi assegnati a intere contrade di agricoltori e vignaioli che a turno vi si recavano per vinificare.

Occorre un enorme sforzo dell’immaginazione per ricollocare la vasca principale – il palmento, appunto – nel quale si versavano e pigiavano i grappoli d’uva.
Da questa rampa i contadini salivano con le loro ceste per scaricare l’uva nella larga e bassa vasca sottostante, dove altri contadini a piedi nudi e coi calzoni arrotolati al ginocchio, eseguivano una ritmica e antica danza.

Il lavoro di fantasia prosegue: ecco laggiù le vasche secondarie di raccolta nelle quali veniva fatto confluire il mosto.
E poi tini, torchi e botti.
Ovunque sgorgavano succhi e liquidi rossi come il sangue, quasi a evocare un sacrificio rituale. Sacrificio che alla fine della giornata terminava qui fuori, nell’aia, con brindisi, balli e canti accompagnati dai suoni degli organetti.

Ma la vendemmia non era l’unico momento dell’anno in cui il palmento era affollato di uomini e donne affaccendati in febbrili operazioni.
I locali adiacenti ospitavano una mostra mercato di prodotti derivati dalla viticoltura e dall’olivicoltura. Ci si poteva ubriacare solo a guardarle le conserve, i succhi, il mosto cotto.
C’erano anche i mastri canestrai intenti ad intrecciare i giunchi per rivestire fiaschi e damigiane, come a suggellare un matrimonio campagnolo tra agricoltura e artigianato.

E adesso il silenzio.

“Senza vino non c’è festa, immaginatevi di finire le nozze di Cana bevendo del tè”. (Papa Francesco Bergoglio)

Palmento abbandonato

Ormai delle vecchie attrezzature non c’è più traccia, e a ben guardare proprio nulla del palmento abbandonato rimanda alla sua originale funzione. Ho davanti un anonimo rudere che rivive soltanto in vecchie foto d’epoca.
E nella memoria di chi ha ancora la fortuna di ricordare storie e visioni di quel passato.

Gesù trasforma l’acqua in vino, l’Europa invece lo annacqua

Che peccato. In Italia erano numerosi gli impianti per la produzione del vino come questo.
La maggior parte dei palmenti abbandonati (molti dei quali scavati nella roccia) si trova tra Campania, Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia.
Dai tempi della Magna Grecia, forse anche prima, i palmenti sono stati il retaggio di un’antica tradizione che ha conosciuto gli ultimi giorni di gloria nell’epoca pre UE.
Perché prima dell’Europa, e delle sue folli normative salutiste, il palmento era l’anima dell’enologia.

L’Europa oggi si abbatte violenta contro tradizioni millenarie soltanto perché prive di carattere di igienicità e sicurezza.
Bruxelles ha deciso che i palmenti non sono a norma, fine della storia.

Migliaia di piccole cantine sparse nelle zone rurali sono state chiuse per fare spazio alle nuove tecniche vitivinicole – quelle sì a norma – quelle delle “cartelle”, dei solfiti e del metanolo.
Quelle dei vini da supermercato commercializzati a 1 euro a litro.
La cosa tragica è che in molti casi, come in queso, al palmento abbandonato si associa l’abbandono del vigneto adiacente, a tutto vantaggio dell’importazione di uve non autoctone e provenienti da paesi esteri.

È inammissibile come tecniche di vinificazione secolari e consolidate, vengano messe in discussione e abolite con una selva di articoli e imposizioni burocratiche stabilite, tra l’altro, da funzionari che vivono a migliaia di chilometri da qui.
Il vino, la pizza cotta nel forno a legna, i formaggi, gli insaccati: tutto il made in Italy sembra dar fastidio all’UE.
È un continuo assedio al nostro immenso patrimonio di trasformazione agroalimentare, un continuo tentativo di metterlo in riga con una sventolata di straccio blu.

Ma all’Europa l’adeguamento italico a questi dettami scriteriati evidentemente non basta. Devono avercela proprio con noi perché è storia recente la persecuzione che la Commissione BECA è intenzionata ad attuare contro il vino italiano, boicottandolo, criminalizzandolo ed equiparandolo alle sigarette.
Le strette proposte vanno dall’inasprimento della tassazione sulla produzione al divieto della promozione, passando per la colossale follia di allungarlo con l’acqua. Perché il vino fa venire il cancro!

Contro queste divagazioni ad alzare la voce solo la Coldiretti e l’Unione Italiana Vini. Nessuna alzata di spada, invece, da parte delle istituzioni e del Ministero preposto.

Sono esattamente cento anni – un abisso – quelli che separano i governanti attuali da quelli del Ventennio. Al contrario della genuflessione odierna alla matrigna Europa, il Ministero dell’agricoltura fascista promosse negli anni ’30 una serie di manifestazioni legate alla vendemmia.
L’intento era valorizzare le radici, le tradizioni, il lavoro e i palmenti del popolo italiano.

Fonti foto: Catalogo generale dei Beni Culturali e Patrimonio Archivio Luce

Era il 28 settembre del 1930 quando si tenne la prima Giornata dell’uva, successivamente promossa dal Duce a Festa dell’uva, una celebrazione di carattere nazionale che per molti anni è stata un simbolo d’italianità anche fuori dai confini italici.
Un’operazione è vero, da un lato volta a ricercare il consenso politico nelle comunità rurali e paesane, ma dall’altro volta ad esaltarne tradizioni e folklore.
Stessa genesi per le giornate del pane, della frutta, del raccolto: una spinta alla propaganda, una spinta all’incremento della produzione agraria.

Si può dire lo stesso delle odierne e ridicole giornate mondiali delle doppie punte, della fetta biscottata che casca sul lato farcito? Oppure della giornata internazionale del backup? (questa esiste veramente e si celebra il 31 marzo).

Nell’epoca fascista la Festa dell’uva entrava in ogni casa e in ogni podere come una casta orgia bacchica. Le pagine della Domenica del Corriere si coloravano di locandine, le città si riempivano di manifesti, e le comunità venivano coinvolte dalle locali OND (Opera Nazionale del Dopolavoro) per organizzare gli eventi.
Si contavano migliaia di presenze. Le persone accorrevano in città dalle campagne e delle contrade per assistere alle sfilate dei carri allegorici, e per l’occasione ci si vestiva con gli abiti tradizionali.

La propaganda lasciava spazio anche alla cultura: erano numerosi i convegni e le conferenze sulle proprietà alimentari dell’uva e dei derivati. E poi i concorsi di poesia in vernacolo, le mostre, l’arte, l’artigianato.
Perché l’universo di Bacco ha sempre ispirato grandi versi, ha colorato le tele e incoraggiato l’amore.

Più profondo il solco, più alto il destino, affermava sempre la retorica di quegli anni.

Il solco italico è ancora profondo e fecondo, ma ormai giace abbandonato e colmo di macerie.
Le intenzioni del Manifesto di Ventotene dovevano fermarsi ai principi di “pace e libertà”. Al massimo promuovere la cooperazione tra i popoli europei.
Invece eccoci qua. Le velleità di una politica economica comunitaria dispotica, imposta e antisovranista non hanno funzionato. L’UE si è rivelata come un enorme fiasco.
Un fiasco che fa acqua da tutte le parti.

Quanto al palmento abbandonato, il suo destino è ormai deciso.
Da patrimonio dell’enologia a improduttivo lemma del vocabolario. Un sostantivo sterile e infecondo, come le macerie che sto calpestando.

Ma brinderemo al fiasco col calice 🇮🇹

E brinderemo sì!
AGGIORNAMENTO del 17 febbraio 2022
: in Europa vince la linea italiana, il voto parlamentare boccia la commissione BECA sfiduciando il suo rapporto contenente scriteriate (e per niente scientifiche) intenzioni di demonizzare il vino italiano!

solaio crollato di un palmento abbandonato

Esplorazione del palmento abbandonato realizzata senza violare divieti, e nel pieno rispetto dello stato di fatto.
Ho lasciando solo impronte, ho prelevato solo immagini.

orsanelcarro

Daniela, per gli amici Orsa. Per i nemici destrOrsa. Amo esplorare edifici abbandonati e omaggiare monumenti e memoriali di guerra.

Questo articolo ha 17 commenti

  1. Aussie Mazz

    Io sinceramente preferisco il rispetto delle norme igieniche. La qualità del vino la fanno (in teoria) la vite, l’uva, il terreno, non i piedi sporchi che lo calpestano. Comunque mi cambia poco perché neppure io lo bevo.

    1. orsanelcarro

      Il discorso è molto più ampio, molti prodotti, che l’UE spaccia per certificati e a norma, sono fatti coi piedi lo stesso! 😀
      La pigiatura tradizionale non era igienica, però non c’è morto nessuno; oggi mangiamo la pasta realizzata con il grano importato nei container contaminati dalla muffa… eh però per l’Europa è il vino italiano a far venire il cancro…
      Mi sembra un enorme circo dell’ipocrisia: viviamo nell’era del consenso informato pure per entrare in bagno, eppure spesso non ci è dato sapere chi, cosa, come e perché per quanto riguarda l’importazione di prodotti alimentari. Ecco che poi succedono anomalie come il prosciutto made in italy realizzato con maiali importati e allevati all’estero in condizioni igieniche pessime. E per “estero” intendo solitamente territorio UE 😉
      Grazie per la lettura 🙂

  2. Ti confesso una cosa: fino a oggi non sapevo cosa fosse un palmento e prima di iniziare a leggere l’articolo ho cercato la parola sul dizionario. Finora conoscevo solo l’espressione “mangiare a quattro palmenti” e ora so dare un significato alla sua etimologia. Non immaginavo nemmeno che esistessero strutture del genere perché nella mia fantasia (o nei ricordi dei racconti dei miei nonni?) le uve venivano pigiate in grossi tini in cortile qui dalle mie parti e in effetti chissà quale sia la ragione di questa differenza.
    Fa riflettere quello che dici a proposito dell’abbandono dei palmenti che ha come conseguenza l’abbandono delle vigne: è un po’ quello che succede nelle malghe di montagna qui dalle mie parti, dove i “marghè” (i formaggiai di montagna) producevano i formaggi in piccole baite di pietra su piani di legno. Ora l’UE ha abolito l’uso del legno che per motivi igienici deve essere sostituito dall’acciaio. Inutile dire che in molto non hanno potuto sostenere le varie spese per adeguarsi alle normative europee, con il risultato che tanti formaggi artigianali sono andati persi e tanti territori abbandonati.

    1. orsanelcarro

      Eh mamma mia che peccato! E chi ce lo restituirà più indietro quel patrimonio di sapori e saperi? La stessa fine l’ha fatta l’artigianato, un po’ per il medesimo discorso delle normative, un po’ anche per i mestieri che ormai nessuno vuole più apprendere. Vivendo in un posto con una fortissima vocazione agricola ricordo che con la scuola elementare andavamo spesso in “visita didattica” nei caseifici, nelle piccole aziende agricole e anche zootecniche (pensa che una volta ce ne tornammo a casa con un pulcino a testa).
      Ecco, io immagino la stessa scena oggi: “Bambini vedete, questa è la camera sterile a pressione controllata dove la giovenca certificata UNI EN ISO 8257000 viene ingravidata dal maschio CE rigorosamente senza olio di palma”… che tristezza ahahahahah 😛 Mi sa che il vero formaggio di malga lo vedremo fare soltanto dal nonno di Heidi… sempre se non lo censurano perché non a norma 😉
      Anche da noi si usava dire mangiare ai quattro palmenti!
      Silvia, grazie come sempre per la lettura 🙂

  3. Anche io come te sono poco dedita al dio Bacco, nel senso che non ci capisco molto ed a lui preferisco il dio luppolo.
    Detto questo, trovo davvero assurdo come si vada spediti verso l’abbattimento di certe tradizioni senza che gli organi preposti facciano sentire la loro voce. L’Italia è anche le sue ricchezze enogastronomiche e ci troviamo sempre più sotto attacco in favore di schifezze ed imitazioni.
    Fanno bene i sardi che, nonostante la messa al bando, continuano a preparare il loro casu marzu!
    Comunque grazie per avermi portato ad esplorare con te questo palmento abbandonato. Anzi, grazie per avermi fatto scoprire una nuova parola 😀
    PS, non ricevo ancora le notifiche. Comm’amma fa???

    1. orsanelcarro

      Mamma mia non apriamo il capitolo imitazioni, anche questa è colpa di chi (non) ci governa, proprio giorni fa mi sono imbattuta nella foto di un prodotto assurdo commercializzato in Asia: “European Mozzarella Cheese” con cheese con from Austria e sulla confezione la Torre di Pisa, Ponte Rialto e la gondola…
      Fanno bene sì, grandi! Magari potrei sostenere la causa e assaggiarne un pezzettino… ecco, ma magari facciamo sotto anestesia 😛
      Il “dio luppolo” mi piace 😀
      Grazie a te per esserci venuta 🙂 Eh, ormai non funzionava più, così ho l’ho disattivata proprio la funzione 🙂

  4. Daniele

    La struttura a volta è bellissima, sembra quasi un tempio. Dovrebbero ristrutturarla e magari convertirla. O continuare a produrci vino in modo più igienico.
    È vero che stanno scomparendo tantissime tradizioni nazionali: bisogna istituire un ente che le protegga.
    Del vino non importa neanche a me, sono birromane, ma i palmeti sono da salvare.

    1. orsanelcarro

      Dici bene, ci vorrebbe un ente per salvaguardare le nostre tradizioni agroalimentari e anche per proteggerle dalle imitazioni. Molti palmenti nel Sud sono stati ristrutturati e convertiti in strutture ricettive: alberghi e ristoranti, alcuni dei quali molto belli.
      Vero, anche a me è sembrato un tempio… infatti mi sono sentita come Orsa Jones alla ricerca del fiasco perduto
      Grazie per la lettura, Daniele

  5. Non ho mai sentito paragonare il vino all’inchiostro; singolare come accostamento. Non sono un esperto conoscitore della bevanda divina, ma per mia esperienza bere il vino è consuetudine, allenamento. Basta che smetti per un po’ di tempo e, al riassaggio, il tuo gusto è cambiato. Birra scura ottima anche per me. Del periodo trascorso rimpiango la festa che si veniva a creare in relazione alla vendemmia. Un momento di convivialità che coinvolgeva un paese intero. Non rimpiango certo la qualità del vino prodotto all’epoca che non incontrerebbe i favori dei consumatori di oggi. Credo che il successo del vino nostrano sia ascrivibile anche alla ricerca di nuove e più sofisticate tecniche di vinificazione. Tuttavia non sposo le fantasiose imposizioni di mamma Europa che pone spesso regole commerciali alla qualità dei prodotti, a discapito del marchio made in Italy. Pure la giornata del backup? No questa no! Prosit Dany

      1. orsanelcarro

        Allora oggi a tavola si brinda, m’impegno a farlo anch’io… chissà, forse potrei anche apprezzarne il sapore al palato di Bic con retrogusto di china 😀 😀 😀
        Grazie ancora, Fausto!

          1. orsanelcarro

            Uh Gesù è vero, ora ricordo anch’io 😀

    1. orsanelcarro

      Eh l’inchiostro proprio per dire che di vino non ne capisco nulla 😀 Sul sapore a cui è abituato il consumatore moderno hai ragione, mi è capitato di parlare con persone avvezze al calice dei nostri tempi lamentarsi della pesantezza e della ruvidezza del vino assaggiato da qualche contadino che ancora lo autoproduce per sussistenza con metodi antichi… il palato si affina. Vero anche il discorso della consuetudine, capita anche con altre bevande o con i cibi. Prosit a te e alla vittoria sulle scriteriate normative europee!!! A Bruxelles allora c’è ancora qualche cervello che ragiona 😛
      Fausto grazie per la lettura e per la bella notizia 🙂

  6. lillyslifestyle

    In Portogallo per fortuna si pigia ancora l’uva con i piedi a suon di canti rurali. 😉 L’Europa voleva anche far finire la produzione del vino in terracotta ma il Portogallo l’ha vinta e oggi ci sono decine di nuovi produttori di vino di talha. A un certo punto bisogna fare a braccio di ferro e non sempre “abbassare i pantaloni”, su questo l’Italia è campionessa. -_- (tristezza)

    1. orsanelcarro

      Wow! Tanta stima per questa gente che non intende cancellare le proprie tradizioni per volere di terzi! Neanche la terracotta stava bene ai burocrati? No comment 😐
      Quanto ha ragione sui pantaloni, tristezza sì… d’altra parte è proprio un’epoca triste, questa 🙁
      Un abbraccio dall’Italia!

      1. lillyslifestyle

        Tristissima ma dobbiamo cercare il bello per quento possibile. Un abbraccio oceanico.

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